venerdì 3 ottobre 2014

Paolo Del Colle - Spregamore



Paolo Del Colle, Spregamore, Gaffi 2014

L’ultimo romanzo di Paolo Del Colle esce a più di dieci anni di distanza dal bellissimo Le ragazze dell’Eur (Quiritta, 2001). La voce del protagonista di allora ritorna qui in tutta la sua solitudine e in tutto il suo smarrimento, nello spazio di una notte, come un male oscuro sprigionato da un corpo offeso e senza pace, e diventa di volta in volta ricordo, confessione, domanda,  grido e  preghiera.
Chi parla -  in un monologo che non è solo parola ma successione di sguardi, immagini, fatti e pensieri che si rifrangono, si spezzano e si ricompongono -  è assediato da una realtà opprimente e soffocante, che la calura estiva rende ancor più insopportabile. Come accerchiato dalla morte - quella già avvenuta del padre e quelle imminenti della madre, con cui vive e di cui si prende cura,  e del gatto, che lascia le tracce della sua malattia per casa e si nasconde – il protagonista trascina il proprio “dolore muto”, ai margini di se stesso, in preda a violente emicranie, nel disordine dell’ appartamento che abita, dove si ammucchiano libri, dvd, vestiti, oggetti vari, medicinali, siringhe, che denunciano la loro deriva, la loro inutilità.
Anche lui si sente il fantasma di se stesso e percepisce un vuoto tremendo, anzi una profonda sfasatura tra ciò che avverte come il mistero inaccessibile della vita e la solitudine dell’esistenza e del  nostro essere nel mondo, tra ciò che ci supera nella sua incomprensibilità ed ineluttabilità e la nostra fragilità, la nostra incompiutezza. E proprio questo doppio senso di incompletezza da una parte e di inutilità dall’altra domina  tutto il romanzo.
La storia del protagonista, profondamente segnata dal fallimento del matrimonio dei genitori e soprattutto sovrastata da due ombre, quella inquieta del padre, e di Lorenzo, il fratello nato morto, è la storia di un disagio, di un male occulto, tra la realtà e il suo fantasma.
Entrambe queste figure incarnano una diversità rispetto al protagonista. Da una parte la “facilità” del vivere del padre, la sua sregolatezza quasi da eterno adolescente innamorato delle donne, dall’altra la “perfezione” del fratello mai nato, dovuta paradossalmente alla sua non-esistenza, l’altra metà di sé, il doppio autentico ma impossibile, mai venuto al mondo. E tra loro c’è  proprio lui, Paolo, il protagonista, con la sua inadeguatezza e le sue domande, in una terra di mezzo che frana giorno dopo giorno. Egli sente l’abisso nella sua carne, un mistero insondabile o addirittura un vuoto che forse è per noi la verità, ma i suoi pensieri restano per lo più al confine, si dibattono smarriti nell’esistenza, oppure vengono risucchiati per un attimo dal corpo e poi espulsi, gettati nel mondo, quasi irriconoscibili.
In tutta la narrazione il corpo appare davvero fondamentale, colloca e smarrisce, è realtà ma anche enigma, chiusura impenetrabile che può divenire improvvisamente transito, accesso innominabile ad altro (e forse non è poi tanto azzardato pensare, in taluni momenti, a Bataille, per il senso di vertigine e di perdita, di offerta senza ritorno, senza impiego, quella dépense che caratterizza l’intera sua opera). Il corpo è perturbante, è plurimo, è storia, è passato e presente, ma al contempo è pensiero che s’arrende, che non può. La coincidenza tra corpo e pensiero non c’è. Che cosa può dire davvero, che cosa può pensare davvero il protagonista davanti al corpo infermo e devastato della madre, o quali parole può pronunciare per sé, per questo suo dolore impronunciabile, per questa sua esistenza solitaria? Che cosa fare davanti alla malattia che precede la morte? A che cosa serve annotare minuziosamente, su due agende diverse,  con cifre sigle e sfumature di colore,  tutte le osservazioni riguardanti l’avanzare implacabile del male nella madre e nel gatto?
Anche ciò che avviene nella notte del racconto è sfasato, come tutto del resto. Niente combacia, niente è intero, niente è unico. “Nemmeno un istante la vita coincide con se stessa”, viene detto esplicitamente. Cos’è mai l’identità?
Spregamore è un quartiere di Roma, che confina con il Divino Amore,  pieno di contraddizioni, privo di qualità precise, eternamente incompiuto, non definito, dove il padre ha abitato l’ultima volta prima di morire e dove Paolo si accompagna a Delia, un trans con le unghie colorate con smalto scuro sulla mano destra e celeste mare sulla sinistra, e che lui possiede cercando di possedere per la prima volta se stesso, con furia, come a voler eliminare i fantasmi del suo passato. Figura centrale e doppia, Delia si ricollega alle prostitute del romanzo precedente, apparizioni nella notte, incontri di enigmi e solitudini, corpi con anime imprendibili, vite multiple che per un attimo divengono sogni di carne, porti immaginari o abissi inconsapevoli, ossimori vaganti nel buio e nelle luci delle città, che Del Colle sa cogliere bene nei loro atteggiamenti o in dettagli minimi ma rivelatori (ad esempio, i brufoli del braccio di una giovane prostituta, nei quali viene ravvisato “un estremo rifugio” della gioventù della ragazza).
E non è un  caso se al ritorno a casa il protagonista si vede diviso dalla cornice di legno dello specchio dell’ingresso in due parti, come “la figura di una carta da gioco francese, un fante sconfitto e mutilato, un re deposto dal fratello gemello: […] pezzi distinti, incapaci di formare una sola persona”. Paolo, dilaniato dall’emicrania, torna nel suo appartamento dove l’attendono i pezzi sparsi della sua esistenza, la madre, ridotta ad un mucchio d’ossa, immobile nel letto, e il gatto anch’esso malato, che scivola nell’oscurità delle stanze. E qui, ancora una volta, si trova emblematicamente fuori tempo e fuori spazio, sotto gli effetti del Viagra, assunto troppo tardi, che gli procura un’erezione inutile e drammaticamente paradossale. Il corpo risponde ad un fatto già avvenuto, non combacia col presente, e la mente è altrove.
L’ultimo capitolo del libro, nel quale la disperazione ed il degrado sembrano raggiungere il culmine, è davvero toccante e di una forza straordinaria. Le parole rivolte al fratello mai nato sono l’estrema confessione di chi rivela tutto il proprio smarrimento, quella solitudine antica e tremenda, quel vuoto che ha assorbito e cancellato la possibilità di una vita vera ed autentica. Eppure nel confronto finale e straziante con la madre, tra rabbia, amore e impotenza, qualcosa succede, qualcosa rompe quel dolore senza parole a cui il protagonista era assuefatto da tempo. C’è forse, per un attimo, un riconoscimento ultimo, qualcosa che si ricompone, che sembra chiudere il cerchio e consegnare la libertà a chi muore, donargli un addio che non fa male. La sfasatura tra la vita e se stessa è ora una distanza che può abbracciare, “e dentro nulla è più bene o male, dolore o gioia, rancore o affetto, è solo speranza, piccola, quella mai cresciuta, che ci fa incontrare per la prima e ultima volta entrambi bambini”.
Con questo romanzo anomalo, di una voce e di un corpo, privo quasi di dialoghi, tutto interiore, Paolo Del Colle ci consegna un’opera complessa, radicale, ferita e che ferisce, avvolgente nella fluidità di una scrittura suggestiva ed ipnotica, che cattura fin dalle prime righe.
Mauro Germani