martedì 20 ottobre 2015

Angelo Conforti recensisce "Giorgio Gaber. Il teatro del pensiero"



Ringrazio davvero di cuore Angelo Conforti per questo suo bellissimo articolo sul mio libro.
La recensione è stata pubblicata anche sulla rivista web "Odissea" diretta da Angelo Gaccione. 

Giorgio Gaber: dialettica negativa e nuovo umanesimo

Recensione del saggio di Mauro Germani, Giorgio Gaber. Il teatro del pensiero, Editrice Zona, Arezzo, 2013

di Angelo Conforti

Il boom
L’Italia degli anni ’50 e ’60 non è soltanto il Paese della ricostruzione e del miracolo economico. C’è un profondo rinnovamento culturale in atto che coinvolge tutti i settori della produzione intellettuale ed artistica. Anche il mondo della musica cosiddetta «leggera» sta radicalmente cambiando, sotto l’influenza del rock and roll, ma anche degli chansonniers francesi.
Tra i tanti personaggi emergenti del periodo ben presto si segnala Giorgio Gaber, cantante e autore poliedrico, formatosi anche alla scuola del jazz, e interessato a fondere entrambe le suggestioni più in voga, quella americana e quella d’Oltralpe. È uno sperimentatore, curioso e aperto, garbato e ironico, dotato di un’ottima mimica e di una presenza scenica efficace. Il suo successo cresce costantemente. Si rivela un partner ideale per Mina, con cui fa coppia in alcuni varietà del sabato sera.
Le sue canzoni hanno spesso un tocco di originalità e di sensibilità per la dimensione del quotidiano che si esprime in una serie di titoli che attraversarono tutti gli anni ’60, come La ballata del Cerutti, Trani a gogò, Porta Romana, Il Riccardo, Barbera e champagne, Come è bella la città, La Chiesa si rinnova, Suona chitarra.
Ma Gaber non scrive solo canzoni. Già nella stagione ‘60/’61 mette in scena Il Giorgio e la Maria, regia di Giancarlo Cobelli, al Teatro Gerolamo di Milano, una pièce teatrale recitata in coppia con Maria Monti. E nel 1966, a Studio Uno, a fianco di Mina, si esibisce in un piccolo sketch da lui scritto e recitato, Il Tic, stupendo pezzo di teatro in cui emergono con evidenza tutte le sue doti mimiche, gestuali, vocali, oltre alla sua attenzione per le tematiche sociali, che all’epoca sta già caratterizzando alcune delle canzoni che abbiamo citato.

Il ‘68
Tutte le energie innovative di quegli anni si coagularono nel grande movimento del ’68 che sembrò aprire nuovi orizzonti per il futuro della società italiana. Ma l’attentato terroristico alla Banca dell’Agricoltura di Milano, con tutto quel che significava sul piano politico e sociale sconvolse tutti gli scenari plausibili e aprì una lunghissima stagione di degrado che coinvolse pressoché tutte le componenti del Paese.
Probabilmente già allora, più in profondità, nelle dinamiche socio/culturali in atto si stava già preparando la centralità della televisione e la conseguente mutazione antropologica cui avrebbe dato origine nei decenni successivi: quella trasformazione nel costume, nella mentalità e negli atteggiamenti che Jean Baudrillard ha chiamato “il delitto perfetto”, la sostituzione del mondo virtuale televisivo al mondo reale, l’uccisione della realtà da parte della tv.
Gaber intanto era diventato un vero mattatore del varietà televisivo, ma continuava a sperimentare: l’album concettuale L’asse di equilibrio è del 1968, nei due anni successivi gira per i teatri con Mina, a contatto diretto col pubblico. Poi un altro Lp anomalo, Sexus e politica con Virgilio Savona (testi di autori latini).
Da agosto a ottobre del 1970 conduce l’ultimo varietà televisivo del sabato, E noi qui.
Gaber è all’apice del successo, ma forse è tra i pochi che han già intuito quale sarà la parabola televisiva, già sospetta il delitto perfetto.
E allora abbandona la televisione. Apre la porta del cielo di cartapesta dello studio, come farà anni dopo in un celebre film il protagonista del Truman show, per uscire nel mondo reale e non tornare più indietro.

La svolta: da «personaggio» mediatico a «persona»  reale
Nei trent’anni successivi il declino dell’Italia sembrerà sempre più irreversibile e ben pochi furono coloro che lo capirono per tempo e seppero sottrarsi, senza rimpianti, alla logica della società dello spettacolo preconizzata da Guy Débord, cioè alla logica del consumismo, della mercificazione della cultura e della trasformazione della merce in spettacolo. Gaber fu tra questi e in quei decenni percorse, con estrema coerenza, una strada totalmente alternativa e lucidamente critica, una strada di ricerca, di sperimentazione, di autenticità, di rapporto onesto, sincero, lucido e critico con la realtà concreta, totalmente altra rispetto alla realtà virtuale della tv.
In quegli stessi decenni alcuni intellettuali inseguivano l’utopia della postmodernità individuando nella perdita del senso di realtà e nella moltiplicazione delle immagini un fattore altamente positivo, liberatorio e fonte di emancipazione. Nel contempo quasi una società intera si lasciava tentare dalla promessa che la televisione faceva a tutti e a ciascuno di diventare famosi almeno per 15 minuti, secondo la profezia di Andy Wharol.
Gaber, invece, procedeva «in direzione ostinata e contraria», per usare le parole di un famoso cantautore come Fabrizio De André. Con una scelta radicale e, in qualche modo, clamorosa rifiutava definitivamente di trasformarsi in un personaggio del mondo virtuale e sceglieva, da tutti i punti di vista, di ritrovare il rapporto con la realtà: con il pubblico, con gli avvenimenti, con il contesto socio-culturale e politico, con la fisicità della comunicazione. Il teatro, uno dei mezzi di comunicazione e di spettacolo più antichi, gli consentiva di oltrepassare tutti i limiti e le contraddizioni moderne e postmoderne, garantendogli la possibilità di tornare ad essere una persona reale, di esprimere pienamente se stesso, di esercitare il proprio spirito critico e la propria creatività, senza limiti e condizionamenti di sorta. Non a caso la parola persona ha un pregnante significato ontologico-esistenziale ma anche teatrale.

Il teatro del pensiero
Da qui inizia il saggio di Mauro Germani (Giorgio Gaber. Il teatro del pensiero, Editrice Zona, Arezzo, 2013) che ricostruisce in modo appassionato ed esauriente tutta l’opera del Gaber «filosofo ignorante», intellettuale libero e disincantato, cultore del dubbio, strenuo difensore del pensiero critico, analista anche spietato di una decadenza spaventosa, di “un’idiozia conquistata a fatica”, trent’anni dedicati al Teatro/Canzone e al Teatro d’Evocazione, i due grandi percorsi di sperimentazione e innovazione artistica e culturale in cui si è espressa, con grande originalità, l’inventiva e la multiforme creatività di Gaber e dei suoi collaboratori, primo fra tutti Sandro Luporini, coautore dei testi di canzoni, monologhi e prose.
Innanzitutto Germani ricostruisce il percorso di Gaber alla ricerca di una espressione teatrale originale e autentica, dai primi spettacoli «in cui prosa e musica, monologhi e canzoni si alternano e sono funzionali gli uni agli altri all’interno di un discorso unitario», attraverso le produzioni successive in cui la scrittura teatrale sarà sempre più elaborata, fino al teatro di sola prosa, fondato sulla «rievocazione/rappresentazione» di una storia, ma anche sulla riflessione, l’autoironia e il distacco critico.
In un capitolo successivo Germani chiarisce il ruolo peculiare svolto dalla musica nell’opera di Gaber, mettendo in luce quelle componenti che fanno del suo teatro un caso unico nel panorama musicale italiano, anche in rapporto a quei cantautori cui è stato talora erroneamente accostato. La dimensione teatrale, la scrittura dei monologhi che si alternano alle canzoni, la complessità del ruolo della musica, la ricerca di incisività e di fisicità della comunicazione non hanno pressoché nulla a che vedere con la ricerca di «poeticità» tipica dei cantautori e con i loro recital che non prevedono una specifica strutturazione teatrale, anche quando si svolgono in teatro.

I temi esistenziali
Con rigore metodologico Germani analizza poi i più importanti temi che Gaber e Luporini hanno trattato nei sedici spettacoli che hanno ideato e messo in scena tra il 1970 e il 2000.
Un tema centrale riguarda «l’enigma del corpo», la sua ambivalenza e problematicità e il rapporto con la mente. Si tratta di un tema esistenziale che presenta anche importanti riflessi sociali. Esso ha a che fare con la ricerca dell’autenticità, dell’integrità del soggetto, del superamento della scissione patologica tra pensiero e azione, tra intenzioni e atteggiamenti, che spesso rende contraddittorie le nostre esistenze. Tra l’altro, un autentico rinnovamento sociale è possibile soltanto grazie a persone che abbiano ritrovato la loro «interezza». Non a caso Germani sottolinea la dimensione fisica dei suoi spettacoli, in cui la parola si faceva corpo: «I suoi movimenti erano tutt’uno con i pensieri, le emozioni e i sentimenti che esprimeva» (M. Germani, Giorgio Gaber. Il teatro del pensiero, cit.).
Un altro dei temi fondamentali del teatro di Gaber/Luporini è quello dell’amore, «inteso come sentimento che dovrebbe essere espressione di pienezza, appartenenza reciproca e responsabilità» (M. Germani, cit.). Dopo una lucida analisi delle forme alienate dell’amore, ridotto a routine, a sessualità meccanica, a forma di evasione o di trasgressione rispetto all’ipocrisia delle convenzioni sociali, l’amore autentico si rivela come un «ideale da raggiungere», che esige la fedeltà a noi stessi, richiede «una vera e propria rivoluzione del nostro modo di essere» e riguarda la pienezza della nostra apertura all’altro e al mondo, alla «realtà in tutte le sue manifestazioni» (ibidem).

La società e la politica
Germani dedica una corposa parte centrale del suo saggio all’analisi critica che Gaber/Luporini riservano alla critica della società e del potere, anche alla luce dei loro fondamentali riferimenti filosofici e culturali: Céline, Sartre e l’esistenzialismo, Pasolini, la Scuola di Francoforte (Adorno e Horkheimer).
Viene così ricostruito il percorso degli spettacoli di Gaber, dalla denuncia della mediocrità piccolo-borghese del signor G, alla fine dell’illusione rivoluzionaria che il movimento del ’68 aveva fatto creder possibile, dalla finta libertà obbligatoria del modello capitalistico e consumistico, che conduce al disfacimento del soggetto ed al suo asservimento alle mode, nonché allo strapotere mediatico, all’indignazione per una progressiva disumanizzazione della società, dalla fine delle illusioni di una generazione che ha perso («il volo mancato» di una «razza in estinzione») alla nuova barbarie che dilaga sul finire del millennio e che è il frutto paradossale dello sviluppo capitalistico/borghese e segna la rinuncia al pensiero e alla libertà autentica, nel nome del mito dominante del successo.
Giustamente Germani sottolinea «la sua [di Gaber] straordinaria capacità di interpretare i fenomeni sociali, ma anche di intuire in largo anticipo i loro possibili sviluppi, di precorrere quindi i tempi» (ibidem). A questo proposito è interessante citare, tra i tanti, il brano tratto da «Mi fa male il mondo - seconda parte», canzone-prosa dello spettacolo E pensare che c’era il pensiero (1995-96), in cui, riferendosi alla tv italiana, si parla di «grande libero mercato delle facce. Facce facce... facce che lasciano intendere di sapere tutto e non dicono niente. Facce che non sanno niente e dicono di tutto. Facce suadenti e cordiali con il sorriso di plastica. Facce esperte e competenti che crollano al primo congiuntivo». Vien da pensare a ciò che avrebbero scritto Gaber e Luporini se avessero conosciuto Facebook, il grande libero mercato mondiale delle facce che trionfa, in un’epoca che, come ha scritto di recente il sociologo Luciano Gallino, è contrassegnata dalla sconfitta del pensiero critico e dalla «vittoria della stupidità» (L. Gallino, Il denaro, il debito e la doppia crisi, Einaudi, Torino, 2015)
Ma non si può chiudere questo paragrafo senza accennare al fatto che Gaber è tutt’altro che un «apocalittico» e che la sua lunga battaglia polemica è stata sempre orientata alla ricerca dell’autenticità, della pienezza di vita, della libertà che è anche responsabilità, dello spirito critico. Ricorda Germani che la coscienza critica e la dialettica negativa, mutuate dai filosofi francofortesi, sono sempre legate all’utopia, nel senso costruttivo del termine. Perciò, «l’ultimo messaggio di Gaber, espresso nella canzone-prosa Se ci fosse un uomo, consiste proprio nell’esortazione ad “immaginare un neo-rinascimento / un individuo tutto da inventare / in continuo movimento”» (Germani, cit.).

Altri temi: la morte, Dio e l’uomo
Gaber non si tira indietro neanche di fronte al tema della morte, nonostante sia possibile parlarne soltanto rispetto alla morte degli altri, dal momento che la propria morte resta fuori dalle esperienze esistenziali possibili. L’approccio al tema è, come sempre, mutuato dalle fenomenologie tipiche dell’esistenzialismo, di cui tutta l’opera di Gaber costituisce in qualche modo un prolungamento. La morte rivela, come altre esperienze radicali della vita (l’amore, ad esempio) la nostra impotenza, fa emergere sentimenti nascosti, contraddizioni, paure, ansie, ipocrisie.
Ma c’è un’altra morte che preoccupa Gaber e riguarda la dissoluzione del soggetto, l’alienazione totale dell’individuo, che non sa più essere persona, ma si lascia manipolare dalle mode, dai poteri occulti, quello dei media e quello delle merci. È la imminente morte dell’uomo occidentale che, con echi del Nietzsche di Così parlò Zarathustra (1883), Gaber denuncia con modalità ricorrenti lungo tutti i suoi spettacoli. Ci torneremo più avanti.
Infatti, prima di tornare a parlare dell’uomo, Germani analizza la peculiarità del concetto di Dio che emerge dagli spettacoli di Gaber. Si tratta di un Dio immanente, che nulla ha a che vedere con il Dio delle religioni positive, con i loro dogmi, culti e rituali. Contrario a tutti i dogmatismi e a tutti gli assoluti, nei confronti dei quali continua a far appello alla necessaria ed auspicabile rinascita del pensiero critico, Gaber si dichiara laico e seguace del dubbio. Il Dio di Gaber rappresenta l’«essenza del pensiero», è un «Dio interiore […] che coincide con la ricerca stessa, con la sete di conoscenza e verità» (Germani, cit.) ed è, pertanto, capace sia di violenta indignazione che di profonda pietas.
Anche Dio, negli spettacoli di Gaber, rimanda pur sempre all’uomo, che costituisce, infine, il centro di tutto il suo teatro, uomo «inteso non come soggetto assoluto, ma come individuo concretamente esistente» (ibidem).
Germani osserva che quella di Gaber «è una sorta di fenomenologia dell’esistenza, uno sguardo rivolto alla condizione umana nella sua totalità, non chiusa quindi in se stessa, ma aperta e attraversata da tensioni e problematiche che investono anche la sfera sociale, politica ed economica […una] indagine appassionata intorno all’esistenza e alle sue possibilità, ai suoi drammi e ai suoi dilemmi, alle sue speranze e alle sue paure» (ibidem).
Come abbiamo visto poco sopra, Gaber e Luporini percorrono senza infingimenti tutte le tappe della spaventosa deriva antropologica dell’uomo occidentale, ma nel contempo, rifacendosi a Nietzsche, auspicano l’avvento di una sorta di oltreuomo, dotato di «una nuova coscienza» (titolo di una canzone-prosa dell’ultimo spettacolo di Gaber, Un’idiozia conquistata a fatica, 1997-2000): è «l’urgenza di un uomo migliore» e la «necessità di una spinta utopistica» (ibidem) che possano dare origine ad un nuovo umanesimo e a un nuovo rinascimento, al culmine di «questo nostro medioevo» (Gaber, Luporini, «Se ci fosse un uomo», Io non mi sento italiano, cd postumo, 2003).

Il pensiero libero
Rendere possibile un nuovo rinascimento dipende soprattutto dalla riscoperta del pensiero, che costituisce l’essenza di tutta l’opera di Gaber negli ultimi trentatre anni della sua vita e del suo lavoro: «teatro del pensiero», secondo l’icastica e perfetta formula con cui lo ha definito Germani:
«Il pensiero cui tende tutta l’opera di Gaber non è l’affermazione di un sapere organicamente costituito, né tantomeno di una specifica ideologia, quanto uno slancio, una tensione ideale che vuole essere tutt’uno con l’esistenza, con l’esserci, qui e ora, dell’uomo. È la spinta utopica che cerca di dare un senso concreto al nostro essere nel mondo […] Questa tensione è per Gaber qualcosa di “fisico”, non è mai astratta, deve in qualche modo essere carne […]» (Germani, cit.).
A questo proposito Germani cita la canzone «Un’idea» che già nello spettacolo del 1972-73 Dialogo tra un impegnato e un non so, esprimeva, con la geniale invenzione del «mangiare un’idea» per renderla carne, la possibilità di fare un’autentica rivoluzione, per poter costruire «un individuo compiuto /cosciente e intero», esigenza che troviamo ribadita nell’ultimo spettacolo, Un’idiozia conquistata a fatica (1997/2000), con la canzone «Il luogo del pensiero», in cui si sottolinea l’urgenza di tale necessità con i versi «cominciando da adesso / prima che l'uomo muoia / nel grande vuoto del suo successo» (Gaber, Luporini, cit.).
Possiamo concludere con le parole di Germani, in cui mirabilmente si sintetizza tutto il senso dell’opera di Gaber e della sua scelta di vita: «Essere una persona: è questo l’obiettivo cui deve tendere il pensiero. Un pensiero davvero libero, non condizionato dalla società o dalla dittatura del mercato, dalla compra-vendita delle idee» (Germani, cit., corsivi nostri).