lunedì 18 settembre 2017

Recensione di Luigi Cannillo a "Voce interrotta"

La voce nell'abisso
Voce interrotta di Mauro Germani



Siamo in una dimensione spaziotemporale che si potrebbe definire postatomica, apparentemente terminale. Non sappiamo se questa sia avvenuta per l'accumularsi di diversi elementi che si sono verificati progressivamente, a causa di un destino esistenziale, o per il precipitare di un unico evento dirompente. Tutto è stato originato nel passato, con un processo che però è ancora in atto, forse al suo ultimo atto. Da Voce interrotta di Mauro Germani, Italic Pequod, Ancona, 2016, si alza una parola essenziale e ultimativa, condizionata da uno stato di caduta e dispersione. La titolazione scarna delle sezioni si limita semplicemente alla loro numerazione (ad eccezione del poemetto finale) e, al loro interno, in testi generalmente brevi, talvolta aggregati in strofe di pochi versi o perfino monoverso, si direbbe lapidari.
Le poesie sembrano affiorare da uno spazio vuoto o svuotato, gli elementi legati al precipitare o causati da esso, in una situazione di lontananza nella quale si trova anche l'autore: “una strada caduta dal cielo”, la stella caduta, una forma di spirale, un avvitamento rovesciato, talvolta duplice o parallelo, che continua anche nell'immagine degli affogati che tornano in superficie mentre scende una luce dal cielo, oppure, successivamente in “quelli che cadevano dai tetti/ e dai balconi” fino a una caduta che coinvolge il Soggetto stesso. Chi scrive è in uno stato di smarrimento, di lontananza: “Dalla terra sale la voce/ dei catturati/ e nella mente infuria/ un'equazione mortale,/ una luce ferma sugli occhi.// Ecco dove sono io, dov'è/ lo zero, il principio/ di ogni angolo, l'orbita/ cieca che mi sfida.// Ecco il centro vuoto/ di questo universo, il lavoro/ di tutti, l'uguaglianza dei vinti.”
Voce interrotta presenta un'allegoria complessa del deflagrare e del dissolversi delle esistenze, delle relazioni e delle memorie che si espande per tutte le sezioni, con continuità, con brevi spostamenti stilistici, immettendoci progressivamente nello stesso centro vuoto, come una misteriosa e sconfinata interrogazione sul senso del nostro restare e sul nostro compito di sopravviventi, reduci e, nostro malgrado, cantori. Il Tempo e la Memoria sono altre entità che fondano questa complessità. Innanzitutto costringono il Soggetto al ricordo, a riascoltare le Voci. Un Tempo indeterminato cronologicamente, considerato come Entità assoluta. Rispetto al quale vengono usati tutti i tempi verbali, sia quelli del passato che del presente, ma anche e significativamente il futuro, che sottolinea l'aspetto profetico della poesia e a volte sembra aprire un terzo tempo successivo alla caduta. E d'altra parte incontriamo luoghi che hanno riferimenti circoscritti, le città di Germani, Livorno e Milano, oppure il riferimento astratto alla Casa e alle sue componenti: le stanze, la via, le finestre, non altro. Inoltre ricorrono nei versi gli spazi di transito: la stazione, le rotaie, la distanza fra diversi punti. Ma questa non è una poesia dei luoghi, piuttosto delle forme del vuoto e della rottura dello spazio convenzionale.
In questo spaziotempo terminale svolge un ruolo essenziale e permane la parola con il suo valore di nominazione, con le sue sconfitte, ma anche con la sua irriducibilità. Ad essa sembra riferirsi in particolare la seconda sezione, nella quale affiora un regno delle voci, nel quale la voce trema, o sale dalla terra, o chiama i morti, voce che “finì nell'attrito”, che si arrende al silenzio e per questo è, anche nel titolo, interrotta. Ma permane, pur indebolita, anche come “ultima impossibile voce”: “C'è solo questa voce/ interrotta oggi/ questo fremito/ che dai terrazzi/ corre alle periferie/ bianche da una/ curva all'altra/ e più lontano/ ai campi, ai pensieri/ dove si posa come/ un mantello di/ nessuno/ oppure ai passi/ di tutte le donne/ che ora se ne vanno/ per essere poi albe/ e tramonti/ e notti.”. Così nella terza sezione, in uno sviluppo lineare e compositivo più fluido che nelle sezioni precedenti, la voce si fa lingua, e sembra ricreare una adesione, una identità, non solo linguistica, con la comunità di chi è precipitato, come se la lingua poetica fosse voce di tutti, in un mondo relazionale in via di estinzione. La sezione finale viene esplicitamente nominata come “Poemetto”, ma è la conclusione di un poema che si è svolto, pur con le sue pause, già dalle sezioni precedenti. Gli Indizi sono strategicamente drammaturgicamente posticipati alla fine della raccolta anziché essere posizionati all'inizio, come a raccogliere in chiusura, e senza più punteggiatura, molti dei fili in caduta, dispersi o volatili incontrati in precedenza, in un concertato di voci e di spostamenti che giustamente può essere considerato come un crescendo finale. Nei quattro testi conclusivi, XI, XII, XIII e XIV, il primo è in prima persona implicita, per continuare esplicitamente con una prima persona iniziale ma dilatarsi a una prima plurale, a un noi: “[...]/ noi ti scriviamo/ leggendo nella/ tana, noi/ siamo il vento/ delle vocali/ e la terra delle/ consonanti/ siamo la tua/ notte segreta/ la lama lucente/ della parola/ assassina.” Poi, nella penultima poesia, il “noi” viene fatto proprio dallo scrivente con una simmetria centrale noi/voi. Per concludere nell'ultima poesia con un loro/noi dove il destino del Soggetto e delle ombre evocate si mostrano mescolati e orchestrati nella coniugazione di tutte le persone plurali: “[...]// loro senza un paese// loro infantili/ e già morti// noi.”
Il destino della caduta e della perdita ci riguarda tutti, sembrano sintetizzare i testi finali: anche il suo cantore, le sue figure di riferimento, il suo luogotempo, tutto ci riguarda, così come la sua voce, giunta qui a un capolinea che possiamo pensare definitivo sia come passaggio che come rappresentazione dello stesso. Senza indulgenza e senza nostalgie, senza compiacimento e ripartenze, con il peso drammatico del reduce, del testimone ancora sopravvissuto insieme alle parole essenziali, con “l'inchiostro bianco/ che scrive l'abisso”.
Luigi Cannillo