domenica 18 marzo 2018

Alberto Giacometti - Scritti

Alberto Giacometti, Scritti, Abscondita, 2001

Alberto Giacometti in lotta con la realtà. Sempre. Con il disegno. Con la scultura. Anche con la scrittura. Per catturare l’esistenza e l’esistente. Non solo volti, corpi, ma anche oggetti. Spinto da un desiderio incessante, anzi una vera e propria ossessione. Tra il vuoto e le forme. Tra il buio e i bagliori improvvisi. Dentro il suo atelier, la sua bottega-caos, la sua stanza da condannato. Nella furia, nella distruzione, nel dubbio, nel tormento. Iniziando, cancellando, ricominciando. Lottando. Anche con la matita o la penna, sui taccuini, sui fogli sparsi scritti ovunque, tovaglie di carta, giornali, libri, muri.
La scrittura di Giacometti procede a piccoli balzi, s’interroga, s’interrompe, si riprende. Ha il respiro e l’affanno dell’esistenza. E’ timida e violenta. E’ fragile e potente. Dice di sé, del suo smarrimento, ma anche della sua urgenza, della sua sfida all’impossibile. Giacometti non usciva mai senza un taccuino in tasca. Doveva osservare, interpretare, scomporre, ricomporre, tracciare linee, segni, parole. La realtà circostante l’assaliva. La sua stessa esistenza l’assaliva, con il mistero dei volti incontrati, la moglie Annette, il legame tenero e disperato con Caroline, i bordelli, gli amici, la malattia.  E le sue teste scavate. I corpi lacerati. Quelle figure sottili. Quelle materie del vuoto. Quelle macerie sospese e parlanti. Quelle essenze di vite rapprese. Quegli acuti alzati nel nulla.
Giacometti consumava e si consumava. Una dépense continua e febbrile, vitale – a modo suo. Un corpo a corpo con l’esistenza ed il suo abisso. Nei confronti della parola provava insoddisfazione, sapeva che non bastava, che ciò che essa traduceva era poca cosa rispetto a quel groviglio che è l’essere umano, a quell’enigma che è il mondo. Eppure scrivere era necessario ed urgente, con le sue sbavature, le sue mancanze, i suoi tradimenti. Anche la sua arte era così. Una pena desiderata ed una meraviglia che stordiva improvvisa. Un tremore che scuoteva. E a volte una violenza tremenda. Un attacco scomposto di crani, di orbite, di arterie, di tronchi umani. E di aggressioni, di pulsioni nascoste, di omicidi incompiuti.
Giacometti viveva nel suo laboratorio, anche quando era fuori, anche quando si incontrava con Caroline. Il suo atelier era dappertutto, la sua infelicità lo seguiva ovunque, insieme al suo darsi, alla sua voglia di esistere per conoscere e per conoscersi. Senza teorie. Senza filosofie. L’uomo Giacometti e l’artista Giacometti non si pensavano, non si parlavano, ma indubbiamente si cercavano e a volte giocavano a nascondersi, a volte si scambiavano le parti, a volte sembravano un essere solo. Chi può dire di più?
Nella bellissima introduzione agli Scritti - volume comprendente testi già pubblicati, taccuini, fogli sparsi e conversazioni - Jacques Dupin afferma che “negli scritti, nell’opera dipinta, scolpita, disegnata, la coscienza della riuscita e della conquista è indissociabile dal sentimento dello scacco. Le avanzate e le ritirate sono insieme i fuochi e i controfuochi, i punti fondamentali dell’erranza e dell’apertura”. Giacometti era un combattente, come in fondo dovrebbero essere tutti gli artisti. Nessuna patria da difendere, forse nemmeno quei segni di lotta, quelle ferite sulla carta e sui materiali da lui usati, ma la battaglia stessa, l’agone che chiama e sfinisce, che fa sperare e disperare, che è la vita e la morte. Perché l’arte non può essere astratta, non può essere incontaminata, non può levarsi al di sopra di tutto, ma  nasce sempre dalla materia, dal sangue, da un atelier sporco di macerie, di esperimenti interrotti, di sconfitte e di momentanee vittorie. Nulla sembra stabile, immutabile in Giacometti. Osservando le sue opere, ci aspettiamo che esse improvvisamente possano cambiare, cercare altre linee, muoversi, cancellarsi e ricomporsi. Ci dicono la mano dell’uomo, il suo movimento e la sua tribolazione.
E sempre Dupin sostiene che gli scritti di Giacometti mettono in evidenza le tre pulsioni fondamentali che governano  l’opera e la vita dell’artista: l’infanzia, la donna e la morte. La prima con i suoi sogni e la sua crudeltà, i rifugi nelle rocce, il sole nascosto dalle montagne, l’atelier del padre, l’attaccamento alla madre. La seconda con il suo fascino strano, che provoca paura ed eccitazione, con il suo corpo ignoto, sgozzata in sogno, sempre lontana o doppia. E poi la morte che “è il fondo, tranne l’ombra che la luce ritaglia, dilania, tranne la luce che bagna i profili del vivente, o della vivente, e la chiarezza che traspare attraverso le carni”, perché Giacometti ha affermato “la presenza attiva del vuoto, l’ha nominata, l’ha ripetuta parola per parola e linea per linea”. 
Qual è stato, allora, il suo autoritratto? Così scriveva nel 1960:
Non so più chi sono, dove sono, non mi vedo più, sono convinto che il mio viso debba apparire come una vaga massa biancastra, esangue, che si tiene assieme sostenuta da vecchi stracci informi che cadono sino a terra. […]
Le teste, le persone non sono che movimento incessante, da dentro, da fuori, si rifanno di continuo, non hanno una vera consistenza, il loro lato trasparente. Non sono né cubi, né cilindri, né sfere, né triangoli. Sono una massa in movimento, un’andatura, una forma cangiante e mai del tutto afferrabile. E inoltre sono come vincolate a un punto situato all’interno che ci guarda attraverso gli occhi e che sembra costituire la loro realtà, una realtà non misurabile, in uno spazio illimitato e che sembra esser altro da quello in cui sta la tazza di fronte a me o che è creato dalla tazza stessa.
Esse non hanno – non più – un colore che sia definibile.
Ritornare su tutto questo.

Mauro Germani